mercoledì 30 aprile 2008

ombre rosse: pochi spiccioli ad un innocente

Stavo ancora digerendo il mio meraviglioso pasto quando scesi dalla macchina in viale Togliatti.

Mi incamminai tra bancarelle di vestiti usati, chioschi da ristoro improvvisati, tavoli da gioco, danzatrici cubiste ed accattoni, mucchi di immondizie e poveri cristi, tutti generalmente malnutriti e vestiti secondo i dettami dell’ultima moda degli straccioni. Un venditore mi offrì per pochi spiccioli un bicchierino di un liquore denso e scuro al quale aveva aggiunto latte condensato e granella di noccioline. Lo mandai giù in un solo sorso, senza chiedere cosa fosse o come si chiamasse l’intruglio. Non sono il tipo che resiste alle tentazioni, per principio. Il mio stomaco non protestò poi troppo. Ringraziai e tirai dritto.

Avevo deciso che valeva la pena fare un salto nella tana del signor Bacus.

Abitava in un miniappartamento all’alveare 334 di Centocelle. Uno dei tanti megacomplessi di edilizia popolare. Squallidi palazzoni costruiti sulle macerie del quartiere romano per ospitare i disperati del primo grande flusso migratorio dalle terre libere, quelli che non erano stati inclusi nel programma di colonizzazione spaziale, i poveri che non avevano potuto permettersi una quota azionaria di una delle stazioni orbitanti o che non potevano vantare nessuna qualifica utile a procurargli un visto per il mondo esterno. Relitti umani come me, solo che io avevo scelto volontariamente di restare. E mia moglie non me lo aveva mai perdonato.

Il portone d’ingresso pendeva semistaccato dai cardini, e gli scalini erano un microcosmo di creature striscianti e rifiuti. Entrai nell’atrio cercando di trattenere il respiro. L’ascensore naturalmente era rotto, e dentro vi aveva trovato alloggio un anziano signore. Stava guardando la tv ad un volume assordante. Cominciai a salire le scale, facendo attenzione a dove mettevo i piedi. Il primo piano, pianerottolo e rampa di scale compreso, era interamente occupato da una comunità di cinesi, la maggior parte dei quali se ne stava seduto con saldatori a filo di stagno in mano e schede di circuiti integrati sopra le gambe piegate. Il secondo ed il terzo piano erano abitati da diverse famiglie, e c’era odore di cibo nell’aria, e musica pop. Mi misi di lena e raggiunsi più rapidamente che potevo il piano del mio uomo, il dodicesimo. Sul suo pianerottolo viveva una famigliola. S’erano ben sistemati piazzando un cucinino sul davanzale dell’unica finestra, ed un letto a castello a metà tra scale e vano ascensore . Una tv era legata al corrimano. C’era un bambino al quale allungai una moneta dicendogli di scendere al bar a comprarmi le sigarette. Sapevo che non avrei più rivisto quella faccia innocente, ne tanto meno avrei avuto un pacchetto di sigarette in cambio dei due eurodollari. Ripresi fiato mentre mi guardavo in giro cercando di concentrarmi.

Il portone di Giovanni era quello contrassegnato dal numero 109. Era chiuso a chiave. Tirai fuori l’astuccio con i miei attrezzi da scasso e mi misi all’opera. Un forellino col mini laser, una spruzzatina di telio nel micronebulizzatore, una scarica con il faser elettromagnetico snodabile. Mandai in corto la placca della serratura, e feci scattare il blocco. Entrai circospetto, alla ricerca di infrarossi antintrusione o altri elementari antifurto, ma non successe nulla. Mi voltai cercando di orientarmi, poi mi ricordai della piccola torcia che avevo in dotazione come buon poliziotto.

Era un salone piuttosto piccolo, quello dove mi trovavo, con un divano e libri e riviste sparsi un po’ ovunque. Una porta era aperta e dava su un cucinino mal fornito, e minuscolo anch’esso. Poi c’era la stanza da letto con relativo bagno. Disordine e sporcizia erano equamente distribuiti in tutta casa. Quest’ultima stanza fungeva anche da studio, con un grosso generatore elettrico ed un gruppo di continuità seminascosti dal letto. C’erano diversi monitor e stazioni di lavoro, pile di rack di memoria esterna, e lettori digitali per vari supporti. Cavi elettrici pendevano dal soffitto e si ammucchiavano in terra. Notai un impianto da innesto neurale collegato ad un piccolo hub wireless da tasca, poggiato sopra l’unica sedia. In un’angolo sopra un tavolino di modeste dimensioni c’era un vecchio 80/88. Roba da collezionisti, o da accattoni.

Rivolsi la mia attenzione al piccolo congegno posato sulla sedia, lo presi e mi sedetti rigirandomelo tra le dita. Che il tipo fosse un informatico già lo sapevo. Non sapevo che fosse un eletto, un net-runner, un surfista della rete, un fanatico con neural-ware nel cervello. Non tutti quelli che lo richiedevano sopravvivevano all’innesto. Un’operazione difficile, e dolorosa.

Questo comunque non aggiungeva molto alla mia ricerca. Erano in tanti, troppi, ad avere provato a bruciarsi il cervello con quegli innesti.

Mi accesi una sigaretta cercando di farmi venire qualche idea su come fare a trovarlo.

Avrei potuto rintracciare il suo spacciatore. Tutti i net-runner avevano un bisogno costante di droghe. Ma qualcosa mi diceva di non perdere tempo in quella direzione. Famiglia non l’aveva, in quanto a relazioni amorose non vi avrei scommesso una scorreggia.

Mi tornarono in mente quei numeri, 198.32.127, ed ebbi una delle mie più improbabili intuizioni. Poi un improvviso rumore alle mie spalle mi fece scattare in piedi. La sedia si rovesciò in terra mentre con una mano puntavo la torcia verso la porta e con l’altra estraevo la pistola.

Una donna mi guardava dalla soglia con occhi stanchi e spaventati. Il bambino fece capolino dall’ombra dietro di lei, stringendo un lembo del vestito. La donna mi porse un pacchetto di sigarette nuovo, dicendo con voce esitante: -“ Il signor Bacus è andato via. Possiamo restare qui finché non torna?”-. Feci un cenno affermativo con la testa e riposi l’arma.

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