sabato 10 maggio 2008

Fuori di me

Fu allora che comparve questa sorta di arlecchino cangiante, col sorriso stampato sulla bocca smisurata. Balzellava di qua e di là gesticolando come un vecchio burattino mentre io ero perso perso nel trip del perdono: Io e me stesso in posizione di blocco. Cercava di dirmi qualcosa in quel silenzio assurdo, macchie di colore in movimento nel bianco silenzio ma non capivo, era evidentemente un'interferenza, qualche ragazzino che si aveva bucato le difese del sistema e voleva solo divertirsi un po'. Non volevo badargli, il mio corpo giaceva in qualche biovasca là fuori e francamente e non avevo voglia di mettermi a giocare. Eppure il ragazzino era bravo, una volta uscito magari lo avrei contattato per qualche giochetto..Intanto continuavo a scalare la spirale delle mie colpe gradino per gradino, ed ogni passo si sdoppiava nelle alternative che lì, di fronte alla scelta tra fare e non fare, mi ero inspiegabilmente precluso nell'illusione che fosse necessario agire nell'unico modo in cui avevo poi agito, quello sbagliato...
-Hi, I'Markus Imor, I'm your lawyer. Una voce mi riportava al bianco assurdo e a quella macchia di colore che, a quanto pare, si era messa a parlare. I'm here to let you escape from here. Diceva la macchia di colore che era il mio avvocato e voleva tirarmi fuori da lì. E mentre mi parlava si produceva in una serie di inchini a braccia spiegate. Per un attimo persi il controllo con l'altro me stesso e lo misi a fuoco. rivestito per tutto il corpo di microschermi semiririgidi 5x5cm proiettava contemporaneamente centinaia di filmati dai contenuti più disparati, videoclip musicali, vecchi documentari naturalistici, videoguide culinarie, vecchi film in bianco e nero..sul petto però aveva uno schermo circa tre volte più grande di tutti gli altri, che mostrava i miei due me separati da questa enorme lastra di cristallo.
-Questo mi serfe per documentare la mia attifità di afvocato mi dice, una qvestione di thrasparenza uerso i miei assistiti e l'ordine a cui apparhhtenko.A folte sapersi all'interno di una narazione rende più colaboratifi i miei clienti..non so bene perchè. e via con un altro inchino.
- Se tu sei qui dentro vuol dire che là fuori qualcuno sta pagando per tirarmi fuori..
- Bravò bravò! :)) ora tu non essere più broker a servizio di Cheeba Coorp, tu sarai professore di skuole medie superiori. Il tribunale molto clemente è stato con te. Avrai corpo di prof sfigato chiamato Paolini, per almeno 3 anni tua vita questa sarà, poi, se vorrai, potrai tornare a tua vita precedente..
che razza di puttanata pensavo, e gli ho anche dato retta a questo bamboccio. Che mal di testa assurdo, uscire di qua, devo uscire di qua pensavo, puttana eva che mal di testa, ecco che quest'alrlecchino del cazzo è svanito pensiamo a come uscire di qui, uscire...

neee neeeeeeeeeeee neeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeee
1f 2f 5x 5y 5z ai varchi 15 14 e 13 dei metal detector grazie, la pausa pranzo è finita

venerdì 9 maggio 2008

ombre rosse: le terre libere

Procedevo a fari spenti su quello che rimaneva della strada statale 148, che collegava Roma alle macerie che una volta avevano nomi di paesi di provincia. Avevo indossato le lenti a contatto ad infrarossi e le ombre della sera mi apparivano colorate delle varie tonalità tra il malva ed il bordeaux. Procedevo lentamente, lanciando rapide occhiate intorno alla macchina, tra le carcasse, tra le macerie, i cespugli, ed i mucchi di rifiuti. Avevo bloccato la pistola sul cruscotto con del nastro adesivo, sul sedile accanto erano poggiati una confezione di lattine di birra ed una bottiglia da mezzo di Stronky, il piccolo taser stordente era infilato nella tasca interna della giacca.

Era parecchio che non uscivo dalla città e non avevo idea di come fosse l’aria nelle terre libere.

Terre libere.

Libere perchè non esisteva nessun vincolo di cittadinanza e nessuna legge garantita. La giustizia e l’ordine erano affidati al caso ed all’umore dei vari caporioni latifondisti, imprenditori del caos, o leaders delle varie tribù di free-trader senza fissa dimora.

Ottenere il permesso per uscire dalla cerchia di mura e passare i check militarizzati non era stato un gran problema, in fondo ero ancora un poliziotto. Convincere il mio capo a muovere il culo ed alzare la cornetta per farmelo ottenere era stato un problema. C’era voluta quasi un’ora, ed in quell’ora avevo ripassato mentalmente il caso, aiutato da un paio di bicchierini e da diverse sigarette.

Dopo un’ispezione dell’auto ed i controlli doganali, mi avevano scannerizzato le retine e mi avevano iniettato il visto sub dermale nel braccio destro. Poi ero strisciato fuori dal GRA, il grande recinto anulare, osservando il filo spinato e le torrette di guardia, e sapendo di essere inquadrato nei mirini di diverse bocche da fuoco.

Mi sentivo come un biglietto della lotteria ambulante, i miei occhi e la mia pellaccia sarebbero tornati indietro comunque, con o senza il resto del corpo.
Sotto la pelle del mio braccio c’era la risposta ai sogni di troppi disperati.

Ero passato attraverso il campo profughi nella grande piana di Spinaceto, con i suoi prefabbricati semiarruginiti e le vecchie roulotte, le tende da campo ed i fuochi sparsi, i panni stesi ed i grossi raccoglitori d’acqua. In questo resort a cinque stelle si trascinavano quelli che speravano ancora nel permesso d’ingresso.

L’odore insopportabile di fogne a cielo aperto e disperazione mi costrinse a chiudere il finestrino.
Alcuni bambini che giocavano a pallone si girarono a guardare la mia auto che avanzava sulla lingua di asfalto, alzarono le braccine a salutare, poi ripresero la partita.

Avevo quindi costeggiato quella che una volta era la riserva presidenziale, ridotta ormai ad un ammasso di scheletri inceneriti, e a guardarla attraverso le lenti ad infrarosso mi sembrava di osservare un pianeta alieno abitato da creature spaventose.

Poi mi ritrovai dalle parti di Pomezia, ancora identificabile per via delle macerie dei sogni di sviluppo industriale, in frantumi tra capannoni abbandonati, tetti sfondati e mucchi di illusioni non riciclabili. Una volta qui tutto era illuminato a festa come un albero di natale, tutto prometteva un futuro fantastico e ricco, una pancia piena ed una femmina calda.

Ora la polvere e la sera rendevano il paesaggio freddo e spettrale come il sorriso di mia moglie.

Non riuscivo a scorgere alcuna presenza di anima viva intorno a me. “Puntare all’obiettivo”, mi ripetevo sentendomi stranamente vivo tra quelle macerie. Allungai una mano sulla bottiglia di liquore.

Mi ero domandato spesso perché. Perché gli uomini avevano rinunciato così facilmente al loro mondo? Perché avevano mandato tutto in malora senza muovere un dito, perché avevano deciso di andarsene senza neanche voltarsi indietro?

I sociologi s’erano affrettati a dare spiegazioni, mutamenti antropologici, dicevano, collasso del sistema. E lo stesso avevano fatto gli scienziati, desertificazione, cambiamenti climatici, lo sciogliersi dei poli, l’inquinamento ed il buco nell’ozono, l’esaurirsi delle risorse energetiche. E bla e bla e bla. I ricchi e i potenti avevano pensato bene che quel poco che c’era era meglio prenderselo tutto per sé piuttosto che sprecarsi a dividerlo. I politici avevano sprecato tempo, parole e soldi pubblici, al solito. I preti avevano bruciato incenso, fatto le loro preghiere e le loro prediche, mentre preparavano le valigie per darsela a gambe pure loro!

Tutti quelli che potevano avevano comprato un lotto di futuro, un futuro lontano da qui, lontano dalle macerie dell’umanità, lontano dal pianeta terra.

Il perché avevo smesso di cercarlo da tempo, e se c’era un motivo unico, un denominatore comune, un input che aveva dato il via al grande shutdown, ormai non interessava più a nessuno. A me meno che mai.
Altro sorso di liquido autocompiacimento.

Puntare all’obiettivo, seguire le tracce, sentirsi ancora vivo.

Avevo inserito quei numeri nel sistema GPS ed avevo ottenuto un risultato, una destinazione.

A volte le intuizioni ti cadono in testa come la mela a Newton. Di solito è una mela marcia, ma sentivo che questa volta era buona come appena raccolta. Un risultato, una destinazione. Non sapevo perché, ma sentivo che quei numeri erano un invito, un indirizzo, un’esca, che il Traghettatore aveva lanciato al mio uomo.