venerdì 9 maggio 2008

ombre rosse: le terre libere

Procedevo a fari spenti su quello che rimaneva della strada statale 148, che collegava Roma alle macerie che una volta avevano nomi di paesi di provincia. Avevo indossato le lenti a contatto ad infrarossi e le ombre della sera mi apparivano colorate delle varie tonalità tra il malva ed il bordeaux. Procedevo lentamente, lanciando rapide occhiate intorno alla macchina, tra le carcasse, tra le macerie, i cespugli, ed i mucchi di rifiuti. Avevo bloccato la pistola sul cruscotto con del nastro adesivo, sul sedile accanto erano poggiati una confezione di lattine di birra ed una bottiglia da mezzo di Stronky, il piccolo taser stordente era infilato nella tasca interna della giacca.

Era parecchio che non uscivo dalla città e non avevo idea di come fosse l’aria nelle terre libere.

Terre libere.

Libere perchè non esisteva nessun vincolo di cittadinanza e nessuna legge garantita. La giustizia e l’ordine erano affidati al caso ed all’umore dei vari caporioni latifondisti, imprenditori del caos, o leaders delle varie tribù di free-trader senza fissa dimora.

Ottenere il permesso per uscire dalla cerchia di mura e passare i check militarizzati non era stato un gran problema, in fondo ero ancora un poliziotto. Convincere il mio capo a muovere il culo ed alzare la cornetta per farmelo ottenere era stato un problema. C’era voluta quasi un’ora, ed in quell’ora avevo ripassato mentalmente il caso, aiutato da un paio di bicchierini e da diverse sigarette.

Dopo un’ispezione dell’auto ed i controlli doganali, mi avevano scannerizzato le retine e mi avevano iniettato il visto sub dermale nel braccio destro. Poi ero strisciato fuori dal GRA, il grande recinto anulare, osservando il filo spinato e le torrette di guardia, e sapendo di essere inquadrato nei mirini di diverse bocche da fuoco.

Mi sentivo come un biglietto della lotteria ambulante, i miei occhi e la mia pellaccia sarebbero tornati indietro comunque, con o senza il resto del corpo.
Sotto la pelle del mio braccio c’era la risposta ai sogni di troppi disperati.

Ero passato attraverso il campo profughi nella grande piana di Spinaceto, con i suoi prefabbricati semiarruginiti e le vecchie roulotte, le tende da campo ed i fuochi sparsi, i panni stesi ed i grossi raccoglitori d’acqua. In questo resort a cinque stelle si trascinavano quelli che speravano ancora nel permesso d’ingresso.

L’odore insopportabile di fogne a cielo aperto e disperazione mi costrinse a chiudere il finestrino.
Alcuni bambini che giocavano a pallone si girarono a guardare la mia auto che avanzava sulla lingua di asfalto, alzarono le braccine a salutare, poi ripresero la partita.

Avevo quindi costeggiato quella che una volta era la riserva presidenziale, ridotta ormai ad un ammasso di scheletri inceneriti, e a guardarla attraverso le lenti ad infrarosso mi sembrava di osservare un pianeta alieno abitato da creature spaventose.

Poi mi ritrovai dalle parti di Pomezia, ancora identificabile per via delle macerie dei sogni di sviluppo industriale, in frantumi tra capannoni abbandonati, tetti sfondati e mucchi di illusioni non riciclabili. Una volta qui tutto era illuminato a festa come un albero di natale, tutto prometteva un futuro fantastico e ricco, una pancia piena ed una femmina calda.

Ora la polvere e la sera rendevano il paesaggio freddo e spettrale come il sorriso di mia moglie.

Non riuscivo a scorgere alcuna presenza di anima viva intorno a me. “Puntare all’obiettivo”, mi ripetevo sentendomi stranamente vivo tra quelle macerie. Allungai una mano sulla bottiglia di liquore.

Mi ero domandato spesso perché. Perché gli uomini avevano rinunciato così facilmente al loro mondo? Perché avevano mandato tutto in malora senza muovere un dito, perché avevano deciso di andarsene senza neanche voltarsi indietro?

I sociologi s’erano affrettati a dare spiegazioni, mutamenti antropologici, dicevano, collasso del sistema. E lo stesso avevano fatto gli scienziati, desertificazione, cambiamenti climatici, lo sciogliersi dei poli, l’inquinamento ed il buco nell’ozono, l’esaurirsi delle risorse energetiche. E bla e bla e bla. I ricchi e i potenti avevano pensato bene che quel poco che c’era era meglio prenderselo tutto per sé piuttosto che sprecarsi a dividerlo. I politici avevano sprecato tempo, parole e soldi pubblici, al solito. I preti avevano bruciato incenso, fatto le loro preghiere e le loro prediche, mentre preparavano le valigie per darsela a gambe pure loro!

Tutti quelli che potevano avevano comprato un lotto di futuro, un futuro lontano da qui, lontano dalle macerie dell’umanità, lontano dal pianeta terra.

Il perché avevo smesso di cercarlo da tempo, e se c’era un motivo unico, un denominatore comune, un input che aveva dato il via al grande shutdown, ormai non interessava più a nessuno. A me meno che mai.
Altro sorso di liquido autocompiacimento.

Puntare all’obiettivo, seguire le tracce, sentirsi ancora vivo.

Avevo inserito quei numeri nel sistema GPS ed avevo ottenuto un risultato, una destinazione.

A volte le intuizioni ti cadono in testa come la mela a Newton. Di solito è una mela marcia, ma sentivo che questa volta era buona come appena raccolta. Un risultato, una destinazione. Non sapevo perché, ma sentivo che quei numeri erano un invito, un indirizzo, un’esca, che il Traghettatore aveva lanciato al mio uomo.

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